“Incubo Mortale” di Pierpaolo Mantovani.

Un pomeriggio, seduto sulla mia vecchia sedia a dondolo, stavo leggendo alcuni racconti brevi di Edgar Allan Poe, in particolare “Il gatto nero” e “Il cuore rivelatore” . Queste due storie mi hanno talmente coinvolto che ho voluto scrivere qualcosa che ne ricalcasse lo stile.

L’esposizione in prima persona usata da Poe, riesce a descrivere lo stato d’animo dei protagonisti, la loro psicologia, le loro angosce. Nei due racconti le paure dei personaggi sono rappresentate da un gatto e da un occhio, che porteranno i protagonisti a compiere due gesti orribili: l’omicidio della propria moglie, e quello di un vecchio amico. Nel mio racconto invece, sono le mani di una donna ritratta in un vecchio quadro a scatenare le paure del protagonista. Quando da bambino trascorreva le vacanze nella villa di famiglia, quelle mani lo tormentavano agitando i suoi sonni. Dopo tanti anni lui torna nella vecchia casa per metterla in vendita, e loro sono lì ad aspettarlo..

“Incubo Mortale”

Un racconto breve di Pierpaolo Mantovani

Non credo di essere pazzo. Chi è pazzo non si rende conto della malattia che lo affligge. Ma io mi rendo conto benissimo di quello che mi è successo, e la prova che tutto ciò che ho vissuto non è frutto della pazzia è qui davanti a me.
Immobile e austero vuole che gli restituisca qualcosa che gli appartiene, qualcosa che in questo stesso istante sto stringendo nella mia mano fino a farmela sanguinare.
Se la mente rimarrà lucida il tempo necessario per raccontarvi il fatto, proverò con tutte le mie forze a farlo. 

Erano passati pochi giorni dalla morte di mio padre, come unico erede dovevo sbrigare tutte le pratiche per la successione dei beni mobili e immobili che il vecchio mi aveva lasciato in eredità. Tra questi c’era la villa di campagna dove da bambino, avevo trascorso la maggior parte delle mie vacanze estive. Essendo la casa in un luogo isolato, avevo deciso di trascorrervi la notte, le cose da fare erano tante, volevo metterla al più presto in vendita e non avevo alcuna voglia di alloggiare in qualche alberghetto di seconda mano sperduto chissà dove.

Quando la vidi, un fiume di ricordi inondò il mio cuore. Nonostante l’erba alta che aveva invaso tutto il giardino, e qualche crepa, era uguale ad allora.
Entrai e mi chiusi la porta alle spalle, rimasi immobile per qualche minuto a respirare quel silenzio. Dalla grande finestra che si affacciava sulle scale, filtrava un timido raggio di sole che illuminava i granelli di polvere sospesi nell’aria. I mobili erano coperti dalle lenzuola come facevamo quando l’estate era finita e la casa veniva chiusa per l’inverno. Sicuramente era da molto tempo che nessuno vi entrava.

Salii la scala che portava al piano superiore. Ogni mio passo era scandito dallo scricchiolio del legno, che come un vecchio reumatico, gemeva ad ogni scalino che facevo. 
Senza rendermene conto mi ritrovai di fronte alla mia vecchia camera. Come se non fossi mai andato via da quella casa, l’istinto mi aveva portato lì. Il bambino che ancora era in me, mi aveva guidato in quella che un tempo era stata la stanza delle lunghe notti insonni. Senza pensarci, afferrai la maniglia, e spalancai la porta. Un forte odore d’aria stantia colpì le mie narici tanto da farmi quasi perdere i sensi. Corsi subito alla finestra e la spalancai. La stanza fu invasa da una luce accecante, l’aria fresca del tardo pomeriggio mitigò quell’odore di chiuso che trasudava da ogni cosa.

Appoggiai il  bagaglio su quello che una volta era stato il mio letto, e pensai che quella notte avrei dormito vestito, non mi sarei mai infilato dentro quelle coperte polverose. Improvvisamente un brivido mi percorse la schiena come se qualcuno l’avesse sfiorata con un oggetto gelido. Ero irrigidito, ed ogni pelo del mio corpo si era drizzato sotto i vestiti. Mi girai lentamente come un robot, e quando lo vidi, il mio cuore cominciò a battere talmente forte, che pensai di avere un infarto.

Negli anni mi ero completamente dimenticato di lui, o forse semplicemente l’avevo rimosso dalla mente. Non ci avevo più pensato, e nemmeno il ritornare alla villa aveva risvegliato il ricordo.
Il quadro era lì, appeso dove era sempre stato, con quella cornice barocca che lo rendeva ancora più inquietante, ma soprattutto lei era lì, la donna ritratta che tanto mi aveva spaventato. Quella donna arcigna aveva tormentato le mie notti di bambino.

La cosa che più mi spaventava non era il suo sguardo, ma le sue mani. Le aveva appoggiate in grembo, erano bianchissime, quasi eteree. Le dita erano lunghe e affusolate, le unghie sembravano delle lame affilate pronte a colpire in ogni momento come gli artigli di un rapace. Nell’indice della mano destra indossava un anello con una montatura in argento al cui centro era incastonata un enorme pietra d’Ambra. Quelle mani erano state il tormento di intere estati.

Quando la sera mia madre mi portava a letto, e andando via spegneva la luce, io rimanevo immobile sotto le coperte terrorizzato. Nonostante fosse buio, quelle mani risplendevano di luce propria, riuscivo a vederle distintamente, riuscivo a vedere quell’orribile anello, e qualche volta mi sembrava che si muovessero come se volessero ghermirmi.

Allora mi coprivo lasciando scoperti solo gli occhi continuando a fissarle. Rimanevo così per ore finché il sonno non prendeva il sopravvento, ma quel sonno era tormentato da incubi terribili. Sognavo quelle mani che si staccavano dal quadro fluttuando nell’aria, le vedevo sopra di me sospese.

Le dita si muovevano lentamente come le zampe di un ragno, si avvicinavano sempre di più fino a sfiorare il mio viso. Nonostante sognassi riuscivo a sentire il profumo della loro pelle. Rimanevano per qualche secondo immobili, poi improvvisamente si scagliavano contro di me afferrandomi la gola. Sentivo le dita che si stringevano al collo, e l’aria che cominciava a mancarmi; a quel punto mi svegliavo con il cuore che mi batteva forte e la fronte imperlata di sudore.

La luce del mattino riusciva quasi subito a far svanire quell’angoscia che mi attanagliava ogni volta, ma stranamente mi alzavo sempre dolorante come se durante il sonno avessi lottato con tutto il corpo.

Non avevo mai avuto il coraggio di chiedere a mio padre di toglierlo dalla parete. Cosa potevo dirgli, che quelle mani ogni notte tormentavano il mio sonno?
Ero impietrito di fronte a quel quadro poi, pensai, che quelle erano solo fantasie di un bambino e lentamente cominciai a rilassarmi. Ormai ero un uomo maturo e non era certo un vecchio quadro che poteva spaventarmi, là fuori c’erano cose molto più terribili del ritratto di una vecchia signora.

I confini della notte avevano avvolto velocemente la villa, ed io mi ero coricato completamente vestito senza togliermi nemmeno le scarpe. Le palpebre si erano chiuse senza che io me ne accorgessi, ma quel sonno durò assai poco.
Mi svegliò un tintinnio metallico che proveniva dalla parete di fronte. Quando aprì gli occhi, le vidi risplendere nell’oscurità. Quelle mani brillavano nel buio come quando ero bambino, ma adesso si muovevano. La mano destra batteva con l’anello sulla cornice del quadro provocando quello strano rumore. Mi drizzai seduto sul letto, mi stropicciai gli occhi non credendo a quello che vedevo, ma loro continuavano a muoversi davanti a me. Ero paralizzato…

Come le ali di un angelo della morte si staccarono dal quadro, volteggiando nell’aria. Cominciarono a danzare nel vuoto come due ballerine fantasma avvicinandosi lentamente. Preso dal terrore mi sdraiai coprendomi la faccia. Tra le dita che mi proteggevano le vedevo sempre più vicine. Improvvisamente, colto dalla disperazione le afferrai.

Erano fredde come la morte, i loro tendini si muovevano spasmodici sotto le mie dita, sicuramente la mia mossa le aveva colte di sorpresa. Cominciarono a dimenarsi cercando di sfuggire alla morsa, ma io stringevo forte, sempre più forte, finché un unghia di quelle dita non si conficcò nella mia carne, il dolore fu insopportabile ed io lasciai la presa. Quell’attimo di debolezza fece sì che mi afferrassero il collo e cominciassero a stringere senza pietà. L’aria iniziava a mancarmi come da bambino, ma non mi svegliai come allora, ero sempre più debole, le forze mi stavano abbandonando, lentamente i miei occhi si chiusero e ci fu solo il buio.

Ricordo solo un dolce tepore che scaldava il mio corpo, quando aprii gli occhi il sole di primavera aveva invaso la stanza ed il suo calore stava curando le mie membra intorpidite. Che brutto sogno avevo fatto, proprio come quelli che facevo da piccolo. La suggestione di quella stanza aveva fatto si che quegli incubi fossero tornati.

Mi passai la mano sulla fronte scostando i capelli sudati ed in quel momento vidi la ferita. Balzai giù dal letto come se fossi stato morso da un serpente, corsi davanti allo specchio e mi guardai il collo. I segni delle dita erano ben visibili come quei cinque lividi che lo provavano.

Rimasi in silenzio, non sapevo cosa pensare. Non volevo credere che tutto fosse successo realmente, e così, con molta fatica, riuscii a darmi una spiegazione logica per quanto era accaduto. Sicuramente quelle ferite erano auto inferte. Nel sonno agitandomi, mi ero ferito alla mano e preso dal sogno così vivido, avevo strinto le mani intorno al collo. Avevo letto di tantissime persone, che durante le loro crisi di sonnambulismo, si erano procurate ferite. Guardai il quadro immobile sulla parete ed ebbi la sensazione che ci fosse qualcosa di diverso, ma non riuscì a cogliere cosa. Comunque non volevo restare un minuto di più in quella casa, raccolsi le mie cose, sistemai quello che dovevo sistemare, e dopo un pranzo consumato velocemente in un Autogrill tornai a casa.

Arrivato nel mio appartamento mi spogliai lasciando i vestiti disordinatamente sul pavimento e mi infilai sotto la doccia. Il calore dell’acqua che scorreva sulla mia pelle attenuò leggermente quel disagio che mi aveva procurato il viaggio. Mi feci un caffè e lentamente tutto sembrò rimettersi a posto. Presto avrei dimenticato quel quadro e tutto quello che avevo provato. Mi sdraiai sul divano, e senza accorgermene mi addormentai profondamente.

Fu un sonno riposante, la mattina mi svegliai pieno di energia, feci un’abbondante colazione e cominciai a riordinare i vestiti che avevo sparso per casa. Quando raccolsi la camicia che avevo usato nel viaggio sentii cadere qualcosa dalla tasca, il rumore che aveva fatto sbattendo sul pavimento era stato metallico. Di sicuro si trattava di qualcosa di piccolo perché non riuscii a vederlo subito. Si era infilato sotto la poltrona e dovetti sdraiarmi per poterlo prendere. Dopo vari tentativi riuscii ad afferrarlo e quando aprii la mano il sangue mi si gelò nelle vene. Per un attimo pensai di perdere il senno, non ci credevo. Scintillante tra le mie dita c’era l’anello che indossava la signora del quadro. L’Ambra brillava sinistra sul palmo della mia mano. Spaventato lo gettai lontano, facendolo finire dietro ad un vaso che usavo per riporre gli ombrelli.

Rimasi seduto a terra per ore, non so quantificare quante, ma quando sentì le campane della chiesa vicina i loro rintocchi segnavano le due del pomeriggio.
Uscito da quella sorta di trance in cui ero caduto, decisi di andare a vedere dietro il vaso. Ero sicuro che non ci sarebbe stato niente, che tutto quello che era successo fosse stato solo frutto della mia immaginazione. Tornare alla villa mi aveva suggestionato a tal punto che immaginavo le cose. Afferrai il vaso trattenendo il respiro, lo spostai con decisione ed il terrore ebbe il sopravvento su tutto il resto. L’anello era lì sul pavimento che si prendeva gioco di me. In quello stesso istante capii cosa c’era di diverso nel quadro quando avevo lasciato la camera. La donna del ritratto non lo indossava più. Nella colluttazione con quelle mani orribili doveva essere caduto infilandosi nel taschino della mia camicia.

Ma cosa stavo pensando! Stavo diventando pazzo? Come potevo credere ad una cosa simile. Eppure lui era lì, sul pavimento, e quella era una cosa inconfutabile.
Le mie farneticazioni furono interrotte dallo squillo del campanello di casa, raccolsi l’anello me lo misi in tasca e andai a rispondere al citofono. Era un corriere che aveva un pacco per me. Quando gli chiesi chi l’aveva spedito mi rispose che il mittente era anonimo. Era voluminoso, ma leggero, lo poggiai sul divano e la curiosità quasi mi fece dimenticare di quello che avevo in tasca.

Aprii con delicatezza l’involucro di cartone che faceva da protezione, e quando vidi quello che conteneva, le gambe mi cedettero di colpo, il mio corpo si afflosciò su se stesso e caddi perdendo i sensi. Quando riaprii gli occhi fuori era buio, mi alzai in ginocchio ed il quadro era lì che mi aspettava.
Per metà era ancora avvolto nella protezione, ma io vedevo benissimo il volto della vecchia signora, e soprattutto le sue mani. Erano cerulee e adunche come le ricordavo, ma la cosa che mi terrorizzò fino a farmi svenire di nuovo fu che, guardandole, vidi quello che già sapevo ma a cui non volevo credere: l’indice della mano destra non indossava più l’anello.

Sono due settimane che non dormo, con le ultime forze che mi sorreggono vi sto raccontando quanto mi è successo. Credo che la pazzia, malgrado fino a pochi minuti fa non ci credessi, si sia impossessata della mia mente, tanto da farmi stare qui a fissare quel quadro giorno e notte. Ho paura a coricarmi perché so che nel momento esatto in qui i miei occhi si chiuderanno non li riaprirò mai più. Ma sono stanco, mi sento debole e ho deciso che stanotte entrerò nel mio letto e mi addormenterò col l’anello stretto al petto. So che quelle mani verranno a reclamare ciò che a loro appartiene, e a finire quello che non sono riuscite a fare tanti anni fa.

Si stringeranno intorno al mio collo ed io non opporrò resistenza, le asseconderò finché non avrò più aria nei polmoni. Il buio si farà più profondo ed in pochi secondi tutto sarà finito. Questa volta non mi sveglierò sudato e palpitante, ma continuerò a dormire il mio sonno mortale, e quelle mani finalmente mi lasceranno in pace per sempre.

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